Questa mattina mi sono imbattuto in una lettera scritta il 28 u.s. dal Presidente del COA Roma, Avv. Antonio Galletti, al Ministro del lavoro e delle politiche sociali, Nunzia Catalfo. In estrema sintesi, si domanda quando sarà disponibile l’ultima tranche del reddito di ultima istanza – e cioè l’assistenza economica agli avvocati in difficoltà a causa del Covid – e se la platea potrà essere allargata.
Questo il merito; quanto ai modi, da “Illustre Ministro” a “Tanti cordiali saluti e grazie per la collaborazione”, la nota è molto deferente. Ora, so bene che la lettera aveva un obiettivo preciso: quando verrà sbloccato l’obolo? E so pure che per molti l'attesa è sofferta e che il quesito è doveroso. Proprio per questo, non posso tacere le mie perplessità in relazione all'estrinsecazione dell'intendimento – pur virtuoso e condivisibile – del Presidente del COA della Capitale.
Partiamo dall’interlocutore: perché non anche il nostro ministro Bonafede? Forse, decisioni come quelle giustamente auspicate dal Presidente Galletti non involgono valutazioni da compiersi in sede interministeriale? E, se pure non fosse, non sarebbe stato opportuno rivolgere anche al nostro ministro Bonafede, ultimamente scomparso dai radar, ogni richiesta, specie sulla scorta della considerazione – il punto più efficace della nota – che 139.000 avvocati italiani su 243.000 iscritti hanno chiesto ed ottenuto tale reddito per i mesi precedenti?
Poi, il tono, per cui sarei lieto di esaminare diversi punti di vista ma con argomenti solidi: come si fa a scrivere una lettera così drammatica come quella in cui si domanda, in sostanza, che l’offerta a un centinaio di migliaia di professionisti in difficoltà cronica venga presto graziosamente elargita, senza lasciar trasparire un minimo di pathos? Tanti cordiali saluti, grazie per la collaborazione: ma quale collaborazione? Quando mai abbiamo potuto notare “collaborazione” dalle istituzioni?
Vogliamo, forse, fingere che già abbondantemente pre-Covid la nostra situazione non fosse scientificamente stata ridotta alla stregua di un proletariato dell’intelletto?
Che non ce la facciamo a reggere sulle nostre spalle le incredibili contraddizioni di una nave-Giustizia che imbarca migliaia di avvocati ogni anno senza curarsi delle loro concrete possibilità di guadagno? Come si fa ad associare la “lunga e forzata inattività” degli avvocati al virus e non rimandare immediatamente, foss’anche per inciso, alla normale crisi terrificante della professione, che è inchiodata alla realtà dai dati, facilmente accessibili da chiunque?
Ed ora, il merito – anche se, forse, l’ho anticipato in parte. Leggere atti ufficiali del genere, per lo più a firma di un esponente apicale dell'avvocatura, mi addolora terribilmente. Perché, con tutto il rispetto,
ho l’impressione che si ingeneri un preoccupante parallelismo tra professione ed assistenzialismo, tra mera sopravvivenza e preteso decoro. Questo, siamo? Questuanti?
Facciano la carità agli avvocati, Vossignori! Ci concedano 600 euretti per andare a comprare il gelato la sera sul lungomare, Eccellenze! Questo sembriamo domandare. Ma il gelato solo per noi, non per i nostri figli, ché non ne possiamo avere, non possiamo permetterceli, così come un’auto, una casa, un mutuo, svaghi. Orsù, accordino l’ultima istanza anche ad altri centomila, così accontentiamo tutti gli avvocati d’Italia!
E invece, no. Doveva essere, DEVE essere diverso da così. La premessa da compiere, in un documento che doveva avere una diversa e più complessa funzione, era rammentare all’ “Illustre Ministro” che già prima della pandemia le condizioni lavorative ed economiche degli avvocati fossero divenute insostenibili, e da molti anni; di poi, il fulcro della comunicazione doveva riguardare l’assoluta necessità sociale di promuovere significative innovazioni e notevoli semplificazioni nel comparto per salvaguardare i professionisti e le loro legittime aspirazioni ma, soprattutto, il senso della Giustizia dei cittadini, che sfuma sempre più in una sfiducia incolore, man mano che le sorti di questo carrozzone sgangherato peggiorano.
Innovazioni che qualsiasi avvocato di media capacità conosce benissimo e che non starò qui a ripetere, visto che ne ho scritto altrove e tantissimi lo hanno già fatto, e molto meglio di me.
La ratio primigenia di una nota del genere doveva consistere nell’inaccettabilità che più della metà degli avvocati italiani avessero fatto ricorso all’assistenza dello Stato, sull’intollerabilità di una politica della Giustizia che manifestava la sua pelosa vicinanza agli avvocati ed ai professionisti in genere soltanto nell’estrema emergenza e che non ipotizzava soluzioni di ampio respiro, dal breve sino al lungo periodo.
Soltanto dopo aver denunciato, con garbata determinazione, lo stato di prostrazione e di discredito di uno dei pilastri della democrazia e l’irrilevanza dei sacrifici di centinaia di migliaia di laureati; solo dopo aver precisato che l’invocazione degli aiuti di Stato ad una maggior platea di avvocati rappresenti qualcosa di innaturale e gravissimo; solo una volta ammonito, con il dovuto riguardo, che questo momento storico è una straordinaria occasione per rilanciare il Paese, in primis il settore Giustizia, anche per incoraggiare gli investimenti esteri in Italia, ebbene SOLO A QUEL PUNTO poteva essere rivolta la semplicissima domanda: “Quando arrivano i soldi? Ce ne saranno di più?”.
Ma non così, certo non così. Pur con tutto il rispetto e la comprensione per il difficilissimo compito del Presidente del COA Roma e la vicinanza per la gestione di un momento così arduo, non con quelle parole, non in quel modo. Non senza permeare il tono della nota d’una dignità reale, non solo di facciata, cui dobbiamo aspirare, pur tra mille difficoltà. Non senza rimarcare che bisogna scongiurare il tracollo della categoria, che già era in corso prima di quest’anno.
Il nostro compito storico è ora, ed è uno solo: rendere davvero decorosa la Giustizia. E questo non fa rima con assistenzialismo.
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